Davide Matera, Fremde.

Non posso certo dire che il mio arrivo in quella città del Nord fu dei migliori. Faceva freddo, era notte, e il buio in uno spazio sconosciuto acuisce l’angoscia. Scritte di interminabili parole composte ad ogni angolo, dure, ostili, fredde come la coltre di neve che copriva ogni angolo di strada, di verde, ogni tetto. Faceva freddo. L’unica parvenza di calore le insegne luminose dei locali; un calore sconosciuto, che non poteva scaldare.

Un grande e modernissimo edificio, una grande entrata. Il mio ingresso in una nuova dimensione.

Sono molto giovane, sono stato strappato alla mia terra nel compiersi di un battito d’ali. Violentemente e senza alcun riguardo reciso alle mie amicizie, ai miei amori, a mia madre. E sono lontano da tutto; in una terra che mai avrei immaginato di dover conoscere. Una città, un nome di cui non avevo mai prima d’ora avuto notizia.

Il dottore è gentile. Nome incomprensibile, straniero e difficile. È curdo. Cerca di farsi capire, anche se né lui né noi siamo cresciuti nella terra della lingua in cui si esprime. Ha una pelle scura che contrasta con l’anima pallida di questi paesaggi. Ci rassicura, ci invita a riposare, a mangiare qualcosa, a prendere camera in albergo e dormire. Il viaggio è stato lungo e stancante, e domani è una giornata importante, domani sapremo cosa sarà della  nostra vita.

Cerchiamo il luogo dove dormiremo. I piedi affondano nella neve che come un gelido sudario ricopre ogni cosa. Un silenzio surreale interrotto dal passaggio di qualche auto. D’improvviso l’estate si è tramutata in un rigido inverno. Da queste parti già a novembre l’inverno richiede il suo tributo. Tira un forte vento. È il periodo dell’anno in cui arrivano i venti gelidi dalla Russia. Sono ben coperto, ma non per l’autunno pungente di queste terre.

C’è un’insegna che suona familiare: “Pizzeria quattro”. Incredibile come quando sei lontano da casa la cosa più banale abbia la capacità di aprire il tuo cuore, di scaldarlo. Mio padre accenna a un sorriso, sorrido anch’io ed entriamo. Il locale è ben riscaldato, accogliente nella sua semplicità. C’è musica italiana, e per la prima volta non faccio caso a che musica sia. È italiana, e tanto basta a rinfrancarmi. Altri uomini dalla pelle scura. Presto veniamo a conoscenza del fatto che sono egiziani, iraniani. I titolari del locale.

La pizza è buona, la birra del colore dell’oro con in cima una schiuma che sembra un cappuccino. Siamo stanchi, ma anche affamati. Papà inizia a parlare di E. e si commuove. Vedo scendergli delle lacrime che gli rigano il viso. Vederlo ridotto così mi turba profondamente, l’ho sempre immaginato forte come una roccia, con quella sua intelligenza affilata come una lama chirurgica. Lui, che se gli chiedi aiuto risolve tutto, anche le cose impossibili. Ora, improvvisamente, mi sembra invecchiato di cent’anni. Faccio lo stupido e cerco di distrarlo, di dire qualcosa che possa allentare quella morsa al cuore che sembra distruggerlo. Ma io non sono padre, sono ancora un figlio. Suo figlio. Cosa posso comprendere della sua sofferenza? Dello smarrimento che gli offusca i pensieri? Forse sarà la birra. Mi consolo pensando che sia così. Ci hanno servito mezzo litro di birra a cui non siamo abituati. L’alcol fa brutti scherzi, fa emergere ogni emozione che teniamo al fondo del groviglio di emozioni e dolore che siamo. Forse è tempo di dormire, domani andrà meglio. Dopotutto siamo qui perché le cose migliorino, perché E. possa tornare alla sua vita e con lei tutti noi. Paghiamo in una moneta di cui non capiamo il valore di scambio. Alla cassa ci sorridono, e penso che tornerò presto perché qui si respira un po’ aria di famiglia.

In albergo fa caldo. Troppo. Papà apre la grande finestra che dà sulla strada innevata. Si mette a letto. Nonostante il lungo viaggio e l’irrecuperabile stanchezza di tutti questi mesi non ho sonno. Mi affaccio alla finestra per fumare una sigaretta. Luci e neve, e una strada nuova, sconosciuta. E un aria finissima, che sembra espandere ogni angolo dei miei polmoni.     

Prima di partire ho registrato delle voci, un’audiocassetta con le voci e i messaggi dei miei amici. Pensavo potessero farmi sentire meno lontano da casa.

Sono andato in bagno, ho aperto il rubinetto della vasca e ho fatto scorrere acqua caldissima. Mi ci sono immerso con la solennità con cui ci si immerge in un archetipo liquido delle origini. Ho indossato le cuffie del Walkman e pressato lo start. Miste alle canzoni di Sting, Tracy Chapman, Battiato sono partite le voci ridenti, affettuose, scherzose, buffe, banali.

Banali.

Sono lontano da tutto. Me ne accorgo adesso, immerso in una vasca anonima, di un anonimo hotel, in una strada anonima di una città sconosciuta. Non c’è più nulla della mia vita, delle mie abitudini, dei miei amori, delle mie giornate.

Le voci scorrono, si intrecciano, incapaci di colmare il dolore che attanaglia la mia esistenza, il mio vuoto interiore. Ho un groppo alla gola, ma non voglio piangere, voglio rilassarmi e dimenticarmi.

Metto l’accappatoio, mi lavo i denti, mi guardo allo specchio come fosse la prima volta. Domani forse andrà meglio. Domani forse sarà diverso. Domani. Sembra già una promessa di cambiamento. Ma adesso, adesso che sono qui, ancora solo e più vecchio di quasi tre decenni, nel silenzio di quest’alba rotto dal cinguettio chiassoso degli uccelli, riguardando indietro a quel tempo di giovinezza mi dico che non sapevo, che non potevo sapere di essere arrivato, quella notte, nella città in cui un giorno avrei lasciato una parte di me. Una parte incancellabile e radiosa, ossimoro della vita vissuta, del mistero del nostro procedere, della disperazione di quei momenti. Forse la più bella, benché …

Le storie, in realtà, finiscono solo con la morte.

E chi scrive vive ancora. Dopotutto.

  IMBNKR, tra qui e l’altrove. 7 Aprile 2023.     

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