Non amo suggerire letture. Credo che la scelta di un libro sia una cosa personale, intima, un rapporto esclusivo tra il lettore e l’autore.
Ma da anni, forse da sempre, mi torna in mente questo titolo.
Fu un libraio illuminato a suggerirmelo. Era un incantevole baratto: io, neanche ventenne, davo lezioni di violino alle sue figlie e lui ricambiava con i libri della sua libreria.
Ma Mario (comunista ortodosso, tutto d’un pezzo e d’immensa onestà intellettuale) non si limitava a pareggiare il conto con libri qualsiasi; mi suggeriva autori importanti, premi Nobel, romanzi di formazione (Bildungsroman), pamphlet politici, quasi un’educazione sentimentale, e io così la percepivo.
Ogni libro che mi consigliava apriva nuovi orizzonti.
Tutto questo arricchiva la già nutrita libreria di famiglia e le discussioni interminabili con mio padre su questioni letterarie, teatrali o poetiche, Genet, Sartre, Pasolini, Moravia, Bufalino, Mann, Böll, gli allora più recenti Golding e Rushdie erano pane quotidiano (a dire il vero lui spesso si dannava perché nel bel mezzo di una discussione trovavo una scusa per tornare a vagare tra le nuvole soffici della giovinezza).
Tornando al libro, allora non sapevo cosa fosse lo Yddish, ma provavo già una particolare fascinazione per la cultura ebraica e per la Mitteleuropa. Mi sono sempre sentito profondamente europeo, intimamente; e lo sono ancora.
Il libro narra una storia d’amore, l’amore tra Shosha, una ragazza con un ritardo mentale e Arele, un uomo molto più grande di lei.
Shosha non è mai cresciuta, non ha imparato a leggere e scrivere e vede i fantasmi. È una storia tra un uomo “sano” e una disabile mentale.
Un senso di morte crescente pervade il romanzo in cui sono immersi tutti i personaggi mano a mano che si avvicina l’invasione hitleriana. Molti di loro potrebbero salvarsi, ottenere passaporti, fuggire negli Stati Uniti, ma non lo fanno: rifiutano ogni aiuto. Sono inadatti alla vita e restano impigliati “sino alla fine del mondo” a discettare su Dio e Spinoza in una lucida e brillante agonia priva di speranza.
Singer, ebreo polacco, quarantatré anni dopo essere fuggito a New York si intestardisce a scrivere nella lingua semimorta dei suoi antenati.
Isaac Bashevis Singer è stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1978.