Oscar Wilde in uno dei suoi brillanti e tanto fortunati aforismi sentenzia: «ogni santo ha un passato, mentre ogni peccatore ha un futuro». Conosciamo tutti l’avventura umana del poeta e drammaturgo irlandese, e come il suo modo di vivere spregiudicato gli sia costato l’alienazione dei favori della buona società londinese. Poesia e rifiuto delle cosiddette “regole civili”, arte e “trasgressione” nel vivere, che lo porterà, in seguito alla condanna per sodomia, nella prigione di Reading e da cui nascerà il suo bellissimo e commovente De profundis.
Un “maledettismo“, contrassegna, imprime col marchio di Caino, i poètes maudits, di cui credo basterà ancora ricordare la relazione tumultuosa tra Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, o i travestimenti eccentrici di Tristan Corbière, che porta a passeggio al guinzaglio un maiale travestito da vescovo, durante i festeggiamenti del carnevale, in presenza del papa.
Vite dunque quasi sempre vissute “al limite” delle convenzioni sociali, il cui fine ultimo sembra essere tanto spesso proprio la poesia, distillato di sofferenza e passione, senso ultimo del breve tragitto esistenziale dell’uomo-poeta.
Forse è operazione spregiudicata l’accostare la vita e l’opera poetica di Antonio Veneziano a poeti a lui tanto distanti per epoca e cultura. Ma a guardar bene, e certo in prospettiva metastorica, sono proprio la vita e la poesia di Veneziano che ci spingono ad accostarlo a quello che Leonardo Sciascia, autore di uno splendido saggio sul poeta monrealese, descrive come appunto il «maledettismo» di «un uomo propriamente mangiato dal carcere», di un poeta dalla vita passionale e avventurosa e tragica, per naturale disposizione, turbine di sentimenti e gusto di libertà. Ed è sempre Sciascia che ancora ci informa della sua «condizione di spretato», delle sue «forme di irriverenza, di spavalderia, di azzardo, di libertinaggio», consegnandoci una figura di uomo in perenne scontro con le autorità costituite e, forse, con se stesso; «agile di spada e nel sostenere la ragione e il torto, l’interesse e il capriccio», un poeta, insomma, la cui originalità va ben oltre un interesse esclusivamente letterario.
Battezzato a Monreale il 7 gennaio del 1543, appartenente a una ricca e potente famiglia di origini forse venete, ma ben radicata a Monreale già verso la fine del secolo XV, Antonello Veneziano, poi Antonio, nel 1555, appena dodicenne, viene arruolato dallo zio arcidiacono nelle “truppe” della milizia della Compagnia di Gesù, nei collegi di Palermo e Messina «per farvi il noviziato e studiarvi rettorica, lingua greca ed ebraica».
Distintosi per il suo «ingegno superiore», nel 1559 è a Roma, al seguito del gesuita Francesco Toleto, che lo inizierà alla filosofia secondo Tommaso.
I modi di vita della Compagnia di Gesù probabilmente non sono tuttavia congeniali al suo temperamento, e indicato dallo zio arcidiacono, nel suo testamento, erede universale – insieme ai nipoti Giovanni e Nicolò -, «coll’espressa licenza e la benedizione dei superiori», lascia la compagnia di Gesù per tornare a Monreale. Qui, nel marzo del 1563, viene accusato, insieme ai fratelli Giovanni e Nicolò «homini armìgeri et forti», dell’uccisione di Giovanni Polizzi, ladro e scorritore di campagna.
Benché non abbia niente a che fare con l’omicidio, Antonio è costretto a dibattere la faccenda per ben cinque anni, con finale prova della tortura. Nel dicembre del 1568 esce finalmente di prigione, ma col divieto di tornare a Monreale, almeno sino al 1576, quando gli sarà concesso di rientrarvi. Quante volte sia stato arrestato, tra il 1563 e il 1568, quale coimputato per l’omicidio del Polizzi, non è dato saperlo esattamente; «e il conto si perde per l’arco dei trentanni di vita dal 1563 al 1593. Il carcere, la prigionia: ecco il vero corso e stato della sua vita» («Natu appenna in enimma fu predittu Di la mia vita lu cursu e lu statu»).
Uscendo dalla compagnia di Gesù, Antonio viene a trovarsi in un ambiente difficile, crudele, in cui ogni valore è difeso con la violenza più cieca ed efferata: la roba, la donna e i puntigli personali, e l’impeto con cui vi si getta fa dimenticare quel suo passato gesuita fatto di devozione e mitezza, di distacco dai beni e dai piaceri terreni.
Nell’agosto del 1573 è accusato di aver rapito Franceschella Porretta, ragazza al servizio della terziaria domenicana Eufrigenia Diana; ma sembra che Eufrigenia fosse complice del Veneziano.
Il fatto coincide con una lite familiare per la divisione della roba: la madre di Antonio, Allegranza Azolino, dichiara il suo disdegno per il figlio degenere. Il fratello Giovanni, insieme a Niccolò, si accorda con la madre a danno di Antonio e il documento di questo accordo è il testamento di Allegranza datato 15 febbraio 1574, in cui il poeta viene diseredato perché figlio «disobbediente».
Liberatosi dalle accuse della monaca e forse scaricatosi anche di Franceschella, Antonio fa donazione di tutti i suoi diritti ereditari ad Eufemia de Calogero, figlia della sorella Vincenza nella cui casa, a Palermo, era ospitato. L’atto di donazione è un documento assai singolare: Eufemia non deve né sposarsi né farsi monaca, deve invece «mantenersi in onestà e pudicizia, mai cadere in errore: pena la nullità della donazione».
Troppe raccomandazioni che forse rivelano, nella figura della nipote, il mistero della «celeste e terrestre Celia cantata dal Veneziano». Perché di altri suoi amori, l’identità non viene nascosta: Francisca, cioè Franceschella Torretta, e Isabella, cioè Isabella La Turri; e si può escludere che esse siano poi diventate la Celia che gli toglie il sonno, che lo “dissolve in atomi”, che lo fa soffrire.
Ancora qualcosa su questa incredibile vita romanzesca: la prigionia in Algeri, dove il poeta conoscerà Cervantes. Da questo sfortunato incontro nacque certamente un rapporto di «estimazione letteraria, se non di amicizia» del quale ci restano due poesie: una di Cervantes a Veneziano, scritta dopo la lettura della Celia e una di Veneziano, di ringraziamento e ammirazione.
Nel 1580 Cervantes, liberato, parte per la Spagna e Veneziano – «da buoni amici recattato» – torna a Monreale.
Ed eccolo, nel 1581, ancora alle prese con liti familiari, rientrato insomma nella normalità, se lo vediamo, in campagna, dove preferisce vivere, impegnato in contesa con qualcuno perché abusivamente pascola greggi nelle sue terre. In un documento del settembre 1582, vediamo irrompere con «grandissima furia» Antonio Veneziano in compagnia di due suoi amici: «et lu dettu de Venetiano dicendo alli compagni soi, dati a sti curnuti, amaczati quanto crapi potiti, che mi hanno aroinato», ecco si gettano in mezzo alle greggi.
E poi ancora l’irriverenza contro il potere istituito, una certa sua inquietudine caratteriale: il 1° dicembre 1588 viene arrestato quale sospetto autore di una pasquinata contro il viceré don Diego Enríquez de Guzmán conte di Alba. «Si trovò appizzato un cartello contro il viceré alla cantonera di D. Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni. Ed alli 13 di gennaro seguente ne fu tormentato Antonio Veneziano, poeta famosissimo di Monreale, ed ebbe sette tratti di corda e tinni».
Sembra ormai attendibile la notizia secondo cui fu proprio un altro cartello “irriverente”, e il tradimento dei suoi amici, ad averlo consegnato, nel 1593, all’ultima e fatale prigionia.
Ed a conferma di questa ipotesi ci viene incontro la tradizione popolare, che attribuisce al Veneziano un’ottava che dice della terribile condizione del carcerato e impreca contro il tradimento: «Amici, amici, quadarì, quadarì, Facitimi quadarì di liscia, Cà tutti quanti mi vogghiu squadari / li robbi lordi di la Vicaria. / Curriti tutti, mastri pittinari, Purtati tutti pettini pri mia; E s’ ‘un cc’è corna, faciti sirrari / Li corna a chiddi chi ‘nfussaru a mia!» (Amici, amici, preparate acqua calda, preparatemi acqua calda con lisciva, che tutti quanti mi voglio bollire gli indumenti lordi di carcere. E voi, mastri che fate i pettini, correte, portate tutti pettini per me; e se non avete il corno da cui farli, segate le corna a coloro che qui mi hanno infossato).
Nel suo Palermo Restaurato (o Ristorato), un resoconto sul rifiorire della città nella seconda metà del secolo XVI, Vincenzo Di Giovanni scrive che il Veneziano era considerato il miglior poeta, nelle accademie e fuori: «Ebbe nella nostra patria il primato: fu d’ingegno acuto e peregrino, di somma sapienza e dottrina, di stile eroico e sublime; e di fare imprese aveva il primato. Le sue canzoni furono di tanto pregio, che ogni cosa bella si reputava da lui; e furono di tal sorte, che ogni professore di poesia, anco d’Italia, desiderava aver canzoni di Veneziano, per servirsi di suoi concetti nelle opere sue; […] Amò egli la sua Celia, per la qual compose cento canzoni, tutte di pensieri celesti, e quelle chiamò La Celia».
La superiorità del Veneziano rispetto agli altri poeti siciliani del tempo è ormai cosa certa. E ciò che fa della sua poesia un caso assolutamente unico è il fatto che per circa due secoli e mezzo essa abbia avuto una vastissima diffusione e tradizione nella memoria del popolo, fin quasi ai nostri giorni, e anzi «la tradizione manoscritta è stata influenzata dalla tradizione mnemonica in cui veniva a realizzarsi quella tendenza a reputare da lui ogni cosa bella già abbastanza evidente nei primi decenni del Seicento».
Per concludere vorrei ricordare il giudizio del critico letterario Francesco Flamini, che, secondo Sciascia, resta “il più esatto che finora sia toccato al Veneziano”: «E cosa nova fece il siculo Petrarca, Antonio Veneziano da Monreale, nel suo canzoniere in vernacolo, intitolato Celia dal soprannome della donna amata, […] ammiratissimo nell’isola ove fu composto ed ove una eco ne sopravvive nei canti del popolo. Ai quali molto deve per parte sua, sia nell’intonazione sia nel metro, questo poeta di fantasia e di sentimento, dotto di greco e di latino ed autore anche di prose italiane, come la descrizione del Fonte Pretorio, signorilmente eleganti, ma insofferente di freno al fervido ingegno e a quella vena mordace che gli fruttò il carcere e, per uno scoppio delle polveri quivi avvenuto, a soli cinquant’anni la morte».